Riparto da qui. inizio della mia fine. Verderame di un cancello.
Palermo e il suo genio.
come sono arrivata fin qui?
da quanto tempo?
dove sei?
sto arrivando a prenderti.
dopo tanto vagare mi fermo.
i viali alberati e l’architettura squadrata di quegli angoli creano un imbarazzo puerile.
-come sono arrivata fin qui?- da quanto tempo?
dove sei?
sto arrivando a prenderti.
il pudore della natura rende i pensieri umidi al tatto. riemergo da un sogno che si scioglie in un abbraccio fatto di desiderio.
lo vedo per la prima volta.
è la prima volta che sono qui.
Vasi dilatati sulla fronte, vene bluastre sui miei polsi.
Abbasso lo sguardo alla ricerca di un sentiero. Ascolto la sua voce, mi parla del genio e della storia di quel popolo e di quella terra, amara madre.
Il sentiero sembra chiaro adesso.
E il cerchio di statue che sta attorno al divino Saturno sembra unirsi sempre più vicino.
Anche tu stai per testimoniare. Mi pare che aleggi. I miei occhi tracciano traiettorie invisibili. E ancora il pudore di fronte alla natura.
Una voce da destra ci dice : Si chiudeee.
Come sono arrivata fin qui? Mi chiedo…
dove sei?
sto arrivando a prenderti.
…….e il teatro??
Non dovevamo andare a teatro?
Volto le spalle e andiamo via.
La sigaretta segna il mio respiro. Occhi bassi ancora. Il cielo è oltre il muro di foglie e di rami che gli atavici alberi hanno tessuto. La cerimonia del quotidiano si rievoca.
Le radici ai miei piedi si intrecciano. È il tutto un tessuto, anche questo cuore che oggi ha una smagliatura. Trasuda umori e mani. La prospettiva si inverte. I sensi si mescolano.
Come sono arrivata fin qui?
Ancora mi chiedo. Ma non ha senso. Abbandono alle mie spalle il viale, il rumore del cancello riecheggia e l’odore del traffico già invade.
Ancora la voce ricorda il testimonio.
Non un monito, ma solo movimento: essere superstite vuol dire andare.
Andare via e abbandonare la distanza del tempo e dello spazio.
Il mare accoglie il mio sguardo, stropiccio gli occhi e ricade l’infanzia .
Sciolgo i miei capelli e ricade la mia testa come quella di Medusa stanca al calar del sole.
Ultimi passi prima di arrivare davanti al teatro.
Siamo in ritardo. Lo spettacolo è finito da un pezzo, di tempo.
come sono arrivata fin qui?
da quanto tempo?
dove sei?
sto arrivando a prenderti.
davanti ad uno specchio bianco il mio automatismo impazzisce.
Non so più a cosa servono le mani, le forchette e il coltello e questo cerchio di carne rossa davanti a me.
Li guardo insieme e li toccherei con le mani, ma non saprei da dove partire. Bianco o rosso?
Sono immobile e sto provando l’esperienza del vuoto. Assenza di pieno. Pieno di assenza.
E l’assoluto vuoto. Non sono niente.
Potrei leggerli come un libro, decifrarle come le parole, vederli come colori, mangiarli, odorarli, parto da qui e non sono niente.
L’occhio della bocca si apre lentamente mentre gli occhi degli occhi mangiano.
L’occhio del naso assale, invade.
Sono caduta ancora.
come sono arrivata fin qui?
da quanto tempo?
dove sei?
sto arrivando a prenderti.
no non passare, ho paura. Temo la tua pelle.
E quel modo cosi ingarbugliato di vivere.
Grovigli di paure. Dovrei nutrirmi di cibo, invece sono monotona e mangio solo quando sento che non lo sto facendo.
Vivo di modica e parsimoniosa quantità ed eviscero pietre di parole. Ho messo una mano nel mio stomaco e l’ho tirato fino alla mia gola. Il fiato si è ridotto, faccio respiri più corti più brevi. Sempre in virtù della quantità. Evito dunque di perdermi nella lunghezza e mi aggroviglio nell’intensità.
Umor nero e denso mi accoglie quando apro la porta, una bimba si avvicina a me…
Sente forse l’odore del cane che poc’anzi mi è saltato addosso ignaro di me spaventato di fronte a quella maschera da gorgone che lui aveva indossato nella sua musica rebetica.
Potrei darle un morso sul collo e sentire il caldo calore dell’innocenza. anche solo per dirle, ecco a te il regno volubile e voluttuoso dei vampiri.
E quasi quasi mi compiaccio di me.
E la testa continua a cadere nel piatto. Motore di ricerca.
Pietra diventa ogni cosa. Dalla violenza del gesto. E Medusa continua a render pietra nonostante la morte. Di scudo e di difesa. E’ dolce se lentamente accetti il fluire. E se lentamente accetti che lo sguardo può ingabbiare e insediarsi.
La ragazza dei giacinti. Ancora memoria. E i miei piedi stanchi e sporchi nei vasi.
So di quella terra nera che si insinua tra le unghie e le rende sporche e opache. Difficile da lindare quelle tracce rimangono. E quei solchi. Della non parola, ma sempre pietra.
Mio zio parla alle vacche con frasi che sembrano cantilene, le sue mani sembrano rami e lui è ingiallito col tempo. Adesso parla poco e non sente. Ma riconosce le stagioni, non teme il freddo, porta scarpe grosse e barba incolta.
Quando viene a trovarmi vuole solo una tazzina di caffè, rigorosamente freddo, perché al caldo non sembra essere più abituato. Mi dice che non serve neanche il piattino, solo un po’ di zucchero ma è difficile che il freddo sciolga il cristallo zuccherino. Gli sorrido e lui mi dice di sé. Lamenta nelle sue poche parole. Lo capisco solo quando alza il tono e alla fine sono costretta a fare segno con la mia mano di abbassare…. Nella casa risuona ancora la eco. Lo ascolto volentieri però. E mi chiede perché sono sola. Sorrido. Mi sento straniera. E in fuga. Lui lo sa.
come sono arrivata fin qui?
da quanto tempo?
dove sei?
sto arrivando a prenderti.
era questo che aspettavo. Ancora.
MOON